Tra i mille problemi che affliggono i nostri mari, uno dei più seri è rappresentato dalla presenza sempre più vasta di microplastiche. Sono ovunque: dalle nostre spiagge al mare aperto, dai ghiacci polari (letteralmente congelate nel ghiaccio!) fin sepolte dalla sabbia nei fondali marini. Ma cosa sono esattamente le microplastiche? Come si formano, come si possono eliminare, e soprattutto: sono un rischio per la salute? Che succede se un pesce dovesse mangiarle? Proviamo a fare un po’ di ordine!
Innanzitutto, le microplastiche sono per definizione dei pezzetti di plastica (di qualsiasi genere, dal PET al nylon) che non superano i 5 mm di diametro. Queste possono essere suddivise in due tipologie: le microplastiche primarie, cioè quelle che vengono prodotte già di dimensioni molto piccole; e quelle secondarie, che si generano dall’usura e dalla frammentazione di plastiche più grandi. Le microplastiche primarie sono vastamente utilizzate nell’industria cosmetica (ad esempio i famigerati “microcristalli”, presenti in dentifrici e creme varie), e finiscono negli scarichi quando ci laviamo. Un altro esempio sono le fibre di poliestere, che si distaccano dai nostri abiti in lavatrice e finiscono direttamente in mare, essendo troppo piccole per poter essere trattenute dai filtri. Le microplastiche secondarie invece derivano dalla consunzione e seguente rottura di tutti i rifiuti di plastica che sono dispersi in mare. Quando questi si depositano su una spiaggia restano esposti al sole per mesi, e la luce ultravioletta provoca delle microscopiche crepe al loro interno. Il materiale diventa quindi più fragile, e non appena viene trascinato dal vento o dalle onde si frammenta in molti pezzi, creando le microplastiche. Il processo non si ferma qui, poiché anche le microplastiche possono usurarsi e frammentarsi a loro volta, generando frammenti invisibili ad occhio nudo e chiamati nanoplastiche (inferiori ai 100 nanometri di diametro). Ciascun rifiuto di plastica, dunque, può potenzialmente trasformarsi in pochi anni in milioni di microscopici frammenti, che si disperdono in modo incontrollato nell’ambiente.
Essendo così numerose e così diffuse, è purtroppo inevitabile che gli organismi marini entrino in contatto diretto con esse. Gli studiosi hanno stilato una lista di ben 690 specie che soffrono la presenza di microplastiche, ed il numero è in costante aumento. Il rischio più grande è rappresentato dall’ingestione, che può avvenire in diversi modi. Animali piccolissimi come i copepodi (minuscoli crostacei che vivono in mare aperto e che formano il plancton) si nutrono di microrganismi ed altre particelle che trovano in acqua; essendo le microplastiche delle stesse dimensioni, forma e colore del loro cibo, molto spesso possono trarli in inganno e venire mangiate. Ad ogni modo, studi condotti in laboratorio hanno evidenziato che questi crostacei sono abbastanza “attenti” agli intrusi, riuscendo ad evitare buona parte delle microplastiche che gli venivano sottoposte nel cibo.
A differenza dei copepodi, però, moltissimi organismi marini non sono in grado di selezionare cosa mettere nello stomaco. Un esempio sono le cozze e le ostriche, dei molluschi bivalvi che si nutrono filtrando enormi quantità d’acqua: non potendo muoversi dal loro scoglio, immettono e poi espellono dal proprio corpo l’acqua di mare, trattenendo di volta in volta il plancton di cui si cibano. Per questa ragione sono animali molto sensibili all’inquinamento, non essendo capaci di selezionare le microplastiche che possono accumularsi al loro interno. Considerando che entrambe sono specie molto apprezzate in cucina, il livello di attenzione per noi umani deve essere sempre alto.
Cosa accade se un pesce mangia una microplastica? Innanzitutto, dobbiamo considerare che nessun animale è in grado di digerire la plastica. Ciò significa che così come viene ingerita, viene poi espulsa. In teoria quindi, la particella di plastica attraversa tutto il tratto digerente dell’animale per essere infine espulsa con le feci. Questo non significa però che le microplastiche siano innocue: se troppo grandi o troppo numerose, possono bloccare il tratto digerente e far morire di fame l’organismo. Il problema non riguarda solo lo stomaco: in molti animali come i granchi, si è visto che le microplastiche possono accumularsi anche sulle branchie, nel fegato (l’epatopancreas) e negli ovari. Il pericolo più grande è però rappresentato dalle sostanze tossiche (ad esempio i coloranti) con cui le plastiche sono prodotte, e anche dai cosiddetti POPs, Persistent Organic Pollutants (gli inquinanti organici persistenti): questi comprendono molte sostanze tossiche o cancerogene come pesticidi, prodotti industriali e metalli pesanti che si trovano di solito dispersi in mare. A causa delle sue proprietà apolari, la plastica agisce come calamita naturale per queste sostanze che vi si attaccano in massa. Le microplastiche quindi possono essere dei letali “cavalli di Troia”, rilasciando tutti questi composti chimici dannosi nel corpo senza essere distrutte. I POPs possono scatenare violente infiammazioni o, nei casi più gravi, la morte dell’organismo.
Gli scienziati hanno cercato inoltre di capire se è possibile che le microplastiche entrino nella catena alimentare marina, cioè se un predatore possa ingerirle involontariamente assieme alla propria preda. È stato osservato che questo avviene abbastanza spesso: i copepodi, come abbiamo visto, sono esposti alle microplastiche ed essendo alla base della catena alimentare, possono trasmetterle a diverse specie predatrici come gamberi e sardine. Se questi poi possano passarle a loro volta a specie più grandi come i tonni, non è ancora stato chiarito.
Da tutto ciò emerge un quadro abbastanza desolante, ma bisogna tenere a mente un concetto fondamentale. Quasi tutte le informazioni che gli scienziati hanno raccolto sulle microplastiche e la catena alimentare riguardano situazioni create appositamente in laboratorio. Gli esperimenti condotti sui copepodi, ad esempio, hanno evidenziato che questi animaletti hanno iniziato a mangiare microplastiche solo quando la loro concentrazione era estremamente alta rispetto a quella del mare. Allo stesso modo, per il passaggio tra prede e predatori, si sono utilizzate solo 2 o 3 specie per volta, senza rispettare le variabili e le complesse relazioni che esistono tra esse in natura. Si è visto dunque che in laboratorio gli organismi marini possono mangiare microplastiche, addirittura potendole passare ai loro predatori, ma non siamo in grado di dire con certezza quali fattori intervengano in questo processo in natura. La nostra conoscenza sul fenomeno è in costante divenire, e solo capendone ogni aspetto possiamo agire efficacemente per contrastarlo.
È dato di fatto, dunque, che molti organismi mangino microplastiche; esiste qualche pericolo per l’uomo? Come abbiamo visto questi frammenti si concentrano nel tratto digerente degli animali marini, per cui è sufficiente eviscerarli per ridurre fortemente il rischio di ingerirle. Una minaccia più concreta e subdola è rappresentata dai POPs, che potrebbero concentrarsi nelle carni del pesce (soprattutto dei predatori apicali, come i tonni), e dalle nanoplastiche, che per le loro dimensioni sono capaci di attraversare le membrane cellulari e diffondersi in tutti i distretti corporei. Non essendo in grado di individuarli, quando mangiamo un prodotto ittico dobbiamo considerare che il “rischio 0” non esiste. L’unico modo efficace per eliminare il problema è quello della prevenzione, riducendo al minimo l’apporto di nuova plastica nei nostri mari e facendo di tutto per raccoglierla e pulire così gli ambienti già inquinati.
Bibliografia:
Ringraziamenti:
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