Intervista curata dalla Dott.ssa Chiara Gavagnin
Secondo le stime dell’International Diabetes Federation (IDF), nel 2021 più di 536 milioni di persone nel mondo tra 20 e 79 anni soffrivano di diabete tipo 2 e oltre 1 milione di bambini e adolescenti (0-19 anni) era affetto da diabete di tipo 1. Il numero di adulti con diabete è però destinato ad aumentare a più di 642 milioni nel 2030 e 783 milioni nel 2045. Nel 2021, le morti attribuibili al diabete nel mondo, tra le persone tra 20 e 79 anni, sono state 6,7 milioni, il 32,6% del totale nei soggetti di età inferiore ai 60 anni e si prevede che arriveranno fino a oltre 640 milioni nel 2030. In Italia nel 2022 quasi 4 milioni di persone erano malate di diabete.
È chiaro quindi che, tra le tante malattie croniche che hanno un importante impatto non solo sui singoli pazienti ma anche su tutta la società, il diabete mellito sia sicuramente una delle più diffuse.
Il diabete è una malattia metabolica cronica caratterizzata dall’aumento dei valori del glucosio nel sangue (glicemia) dovuto a una mancata produzione di insulina o una mancata risposta dell’organismo alla sua azione. L’insulina è un ormone prodotto da particolari cellule del pancreas, le cellule ß, e la sua azione è volta a favorire il passaggio del glucosio dal sangue alle cellule regolando in tal modo la glicemia. Se l’organismo non produce insulina in quantità sufficiente o se le cellule non rispondono in maniera normale all’azione dell’insulina (insulino-resistenza), il livello di glucosio nel sangue aumenta mentre diminuisce quello all’interno delle cellule. Queste alterazioni provocano il manifestarsi della malattia.
Ma cerchiamo di capire meglio in che modo la malattia ha origine e quali sono i suoi sintomi principali. Innanzitutto, esistono due tipi di diabete: il diabete di tipo 1 e quello di tipo 2. Il diabete di tipo 1 è caratterizzato dalla distruzione, generalmente di origine immuno-mediata, delle cellule ß del pancreas con conseguente mancata produzione di insulina. Se l’insulina non viene prodotta, i livelli di glucosio nel sangue aumentano fino a raggiungere livelli patologici (iperglicemia). Il diabete di tipo 1 si manifesta soprattutto in bambini e in persone giovani (generalmente sotto i 30 anni) e per questo una volta era definito “diabete giovanile”.
Nel diabete di tipo 2, invece, il pancreas produce normalmente l’ormone ma l’organismo sviluppa una resistenza all’insulina che non riesce a esplicare la propria azione. Man mano che la malattia procede, la capacità del pancreas di produrre insulina si riduce. Questo tipo di diabete si manifesta soprattutto in persone di età superiore ai 30 anni e l’incidenza aumenta all’aumentare dell’età. Il diabete mellito di tipo 2 è la forma più comune di diabete e rappresenta circa il 90-95% di tutti i casi. Oltre alla predisposizione genetica, alla base di questa malattia ci sono fattori di rischio ambientali come obesità, inattività fisica e abitudini alimentari scorrette.
In entrambi i casi, l’organismo va incontro a una condizione di iperglicemia che dal punto di vista clinico si evidenzia con dei sintomi caratteristici: aumento della sete, dell’appetito e della diuresi. Altri sintomi che possono insorgere in caso di diabete mellito sono l’offuscamento della vista, la sonnolenza, la nausea, una minor resistenza all’esercizio fisico fino a complicazioni molto gravi quali ictus, retinopatia diabetica con conseguente cecità, insufficienza renale cronica (nefropatia diabetica) e riduzione della sensibilità di piedi e gambe (neuropatia diabetica); inoltre le persone diabetiche sono più facilmente soggette ad infezioni batteriche a causa di una minor attività del sistema immunitario e nei casi più gravi si può andare incontro a una condizione di grave scompenso di tutto l’organismo definita chetoacidosi diabetica.
Generalmente il trattamento prevede di seguire una terapia farmacologica (in particolare con l’insulina, ma non solo) ma anche uno stile di vita sano con una alimentazione corretta e un’attività fisica regolare. Lo scopo del trattamento del diabete è quello di mantenere il più costante possibile il valore della glicemia.
Questa patologia può aver un impatto significativo sulla qualità di vita delle persone che ne sono affette: se non gestita correttamente, può portare a una serie di complicazioni che influenzano diversi aspetti della vita quotidiana dei pazienti. Le persone con diabete devono prestare attenzione a cosa mangiano e monitorare attentamente l’apporto di zuccheri e carboidrati. Ciò può comportare restrizioni nella scelta degli alimenti e nei pasti, rendendo più complessa la relazione con il cibo. Inoltre, la gestione del diabete richiede un impegno giornaliero che include il monitoraggio regolare della glicemia, l’assunzione di farmaci, l’adeguamento della dieta e l’esercizio fisico. Questa costante autogestione può essere fonte di stress e preoccupazioni che può avere un impatto emotivo significativo: la necessità di far fronte a una condizione cronica, le preoccupazioni riguardo alle complicazioni a lungo termine e l’adattamento a una nuova routine di vita possono causare stress, ansia, depressione e disturbi del comportamento alimentare. Infine, il diabete ha anche un forte impatto sulle attività quotidiane: la necessità di gestire la malattia può limitare la partecipazione ad attività sociali, sportive e ricreative e l’instabilità della glicemia può influire sulla capacità di concentrarsi e svolgere le normali attività quotidiane.
Le ripercussioni del diabete vanno però oltre il singolo individuo, influendo anche sulla sostenibilità dei sistemi sanitari e sull’economia a causa delle spese mediche e della perdita di produttività associata alla malattia. La prevenzione, la diagnosi precoce e la gestione efficace del diabete sono pertanto fondamentali per ridurre il suo impatto sulla salute pubblica e nel migliorare la qualità della vita delle persone colpite.
Proprio a causa dell’impatto che questa malattia ha in così tanti aspetti della vita delle persone, la ricerca sul diabete è di grande importanza per ridurre al minimo le conseguenze sugli aspetti clinici e sulla sanità pubblica. Gli ambiti in cui si muove la ricerca vanno dalle identificazioni delle cause e dei meccanismi della malattia alla messa a punto di nuovi trattamenti, alle strategie di prevenzione. Gli studi clinici ci permettono infatti di comprendere sempre meglio i meccanismi patogenetici che portano alla comparsa del diabete: questo può permettere di identificare nuovi bersagli terapeutici e di sviluppare nuove strategie di prevenzione della malattia. La ricerca inoltre è cruciale per lo sviluppo di nuovi farmaci al fine di migliorare il controllo glicemico. Non secondario è anche il ruolo che la ricerca gioca nell’ambito della prevenzione della malattia, mirando a migliorare le tecniche diagnostiche per consentire una diagnosi precoce e un intervento tempestivo, permettendo di ridurre le complicazioni a lungo termine del diabete e il suo impatto economico e sociale.
Negli ultimi anni uno degli ambiti di ricerca che sembra poter dare maggiori riscontri sia per lo studio della patogenesi del diabete che per lo sviluppo di possibili terapie future, è quello legato allo studio di alcune particelle chiamate microRNA (miRNA), piccoli frammenti di RNA non codificanti prodotti all’interno delle cellule. Ne abbiamo parlato con il dottor Guido Sebastiani, Professore Associato di Medicina Traslazionale e di Laboratorio presso il Dipartimento di Scienze Mediche Chirurgiche e Neuroscienze dell’Università degli Studi di Siena che da anni si occupa della ricerca sul diabete e in particolare del ruolo dei microRNA nella patogenesi della malattia.
Professore, innanzitutto, cosa sono i microRNA e come contribuiscono alla patogenesi del diabete di tipo 2?
I microRNA sono dei piccoli RNA di lunghezza limitata (da 18 a 25 nucleotidi) che, nonostante la loro piccola dimensione, svolgono un ruolo molto importante: servono infatti a regolare l’espressione dei geni, da cui derivano le proteine che determinano poi la funzione della cellula stessa. La loro alterazione, quindi, può andare a impattare sulla funzione delle cellule. Lo scopo della nostra ricerca è capire come i microRNA agiscano sulla funzione delle cellule ß del pancreas e quali siano coinvolti in questo processo.
Nel diabete di tipo 2 diversi microRNA sono coinvolti nella disfunzione delle cellule ß, nella secrezione dell’insulina da parte delle cellule ß stesse e anche nella loro sopravvivenza. Ci sono infatti dei microRNA che sono importanti per la sopravvivenza delle cellule ß e altri che ne modulano l’apoptosi, cioè la morte cellulare. Si possono distinguere due categorie di microRNA: quelli che possono avere un impatto negativo sulla funzione delle cellule ß favorendo così l’istaurarsi della patologia e quelli invece che hanno funzione protettiva su queste cellule agendo, cioè, come dei compensatori della disfunzione beta cellulare. Uno di questi, identificato da poco, è il microRNA 184 che protegge le cellule dai danni tipici del diabete conseguenti all’iperglicemia, alla lipotossicità e all’esposizione a molecole pro-infiammatorie (citochine). Il bilanciamento tra microRNA che portano a delle alterazioni della cellula ß e quelli che invece la proteggono porta a delle sfaccettature della patologia molto importanti.
I microRNA possono essere utilizzati come marcatori per la diagnosi e il monitoraggio del diabete tipo 2. A che punto invece sono gli studi su un loro utilizzo a fini terapeutici, cioè per la creazione di farmaci che abbiano queste molecole come bersaglio?
L’aspetto terapeutico è molto delicato e interessante. Una particolare applicazione potrebbe essere quella di modulare l’azione del microRNA 184 che, come abbiamo visto, protegge le cellule ß. Potenzialmente sarebbe possibile andare a simularne l’azione protettiva delle cellule ß nei pazienti con diabete tipo 2. Il problema principale per le terapie che mirano a bersagliare il microRNA è cercare di veicolare il microRNA o i suoi inibitori all’interno delle cellule. Il principale ostacolo è quindi cercare delle strategie di delivery, cioè di consegna del farmaco solo ed esclusivamente alle cellule ß. Stiamo lavorando su questo aspetto anche grazie al Consorzio RNA e terapia genica: l’Università di Siena è particolarmente coinvolta essendo coordinatrice di un settore di questo progetto in cui stiamo cercando di generare delle vescicole che fungano da vettori per trasportare i microRNA o i modulatori dei microRNA solamente all’interno delle cellule ß. Al momento non c’è un’applicazione terapeutica nel diabete di tipo 2 in fase di trial clinico nell’uomo; per il futuro si spera di poter riuscire ad arrivare a questo risultato. Con i modelli animali è più semplice perché è possibile veicolare i microRNA nelle cellule ß attraverso vettori virali o verificarne la funzione attraverso modelli animali transgenici.
Che vantaggi potrebbero portare queste terapie alla qualità di vita dei pazienti diabetici?
Una potenziale applicazione si potrebbe avere nella fase che precede la diagnosi clinica di diabete tipo 2, cioè nella fase prediabetica. In questa fase è possibile intervenire andando a bloccare il processo di disfunzione progressiva delle cellule ß in modo da prevenire il danno. È un’applicazione preventiva per poter ripristinare la loro funzione oppure inibire l’alterazione delle cellule ß.
Nell’ambito del diabete tipo 1 ci sono ricerche analoghe? I microRNA sono coinvolti anche nella patogenesi del diabete di tipo 1?
I microRNA sono coinvolti anche nella patogenesi del diabete tipo 1. In collaborazione con un gruppo di ricerca svizzero abbiamo dimostrato come i linfociti che infiltrano le isole pancreatiche distruggendo le cellule ß utilizzino alcuni microRNA contenuti in vescicole che, dopo essere stati secreti, vanno a bersagliare le cellule ß stesse inducendone l’apoptosi, cioè la morte cellulare. Abbiamo dimostrato anche che, nel modello animale, se si blocca l’azione di questi microRNA, in particolare di tre microRNA specifici che vengono trasferiti dai linfociti alle cellule ß, si riesce a prevenire il diabete. Il passaggio all’uomo è di fondamentale importanza. Nei modelli animali abbiamo utilizzato un vettore adenovirale per trasferire gli inibitori di questi microRNA alle beta-cellule. Nell’uomo ci sono oggettivi impedimenti per procedere da questo punto di vista.
Si va verso la personalizzazione delle cure in vari ambiti terapeutici. Con queste nuove scoperte, si può pensare che anche per il diabete si possa andare verso una terapia personalizzata?
Questo è un altro filone di ricerca in cui siamo attivamente impegnati. Infatti, i microRNA non solo si trovano all’interno delle cellule ma possono essere anche rilasciati in circolo e possono pertanto esser utilizzati come una sorta di biomarcatori che permettono di identificare in alcuni pazienti degli specifici fenotipi oppure endotipi. Questo è importante soprattutto nel diabete tipo 2. Per il trattamento di questa forma di diabete ci sono infatti molti farmaci che possono essere somministrati, ma non tutti hanno una risposta adeguata. Identificare i pazienti che potrebbero avere una mancata risposta a un determinato farmaco ci permette di dare loro una specifica terapia. I microRNA sono utili perché ci aiutano a identificare questi sottotipi, anche nel diabete di tipo 1.
In base alle conoscenze attuali, è possibile ipotizzare la creazione di un vaccino per il diabete nel futuro?
Questa possibilità riguarda soprattutto il diabete tipo 1 in quanto è stato dimostrato un potenziale ruolo di alcuni tipi di virus nel contribuire alla patogenesi di questa forma di diabete. Ci sono delle evidenze molto chiare al momento. Un recente studio ha dimostrato che la somministrazione di un mix di farmaci antivirali in bambini con recente diagnosi di diabete tipo 1 ha migliorato la funzione delle cellule ß. C’è inoltre in previsione l’utilizzo di un vaccino contro tali virus e quindi il vaccino è potenzialmente un’ipotesi valida per la prevenzione del diabete di tipo 1.
Alla base della disregolazione dei microRNA che poi porta al diabete ci sono diversi fattori. Seguire una dieta bilanciata e uno stile di vita corretto può aiutare a “regolare” i microRNA?
Nell’uomo è chiaramente molto difficile valutare la modulazione dei microRNA nei tessuti di interesse in risposta alla diversità della dieta. Nel modello animale è più semplice ed è stato osservato che la modulazione dei microRNA è fortemente dipendente da molteplici fattori e anche dalla dieta. Per esempio, l’espressione di molti microRNA è influenzata dall’esposizione a una forte concentrazione di lipidi (lipotossicità) o all’iperglicemia.
I microRNA finora sono stati studiati sugli animali da laboratorio. Quali sono le difficoltà nel trasporre le conoscenze sui microRNA ottenute in laboratorio all’ambito umano?
Ci sono studi molto importanti che valutano, ad ampio spettro, l’espressione di microRNA nelle isole pancreatiche umane; per ora, tali studi sono limitati. Il primo ostacolo è senz’altro la limitata possibilità di disponibilità di tessuti umani: accedere a isole pancreatiche derivanti da donatori multiorgano o bioptici è infatti molto difficile. Tuttavia, ci sono dei network internazionali, come lo statunitense nPOD (Network of Pancreatic Organ donors with Diabetes), che raccolgono tessuti pancreatici da donatori con diabete tipo 1, tipo 2 o diabete gestazionale. Questi tessuti pancreatici vengono poi messi a disposizione dei ricercatori per effettuare studi specifici e altamente qualificati.
Lo studio dei microRNA può permettere di evidenziare soggetti che potrebbero sviluppare il diabete tipo 2 nel corso della loro vita. Quali potrebbero essere i risvolti pratici per i soggetti predisposti?
Ci sono buone evidenze sull’utilizzo dei microRNA circolanti che potrebbero esser misurati per predire l’insorgenza futura di diabete e identificare chi è maggiormente a rischio di sviluppare la patologia nel corso della vita. Se non esistono terapie che possono esser applicate nella fase prediabetica, si possono adottare delle misure preventive come instaurare una dieta corretta, fare attività fisica costante e controlli più serrati per ritardare il più possibile la diagnosi di diabete tipo 2. Per il diabete tipo 1, invece, è stato di recente approvato dalla FDA (Food and Drug Administration) ed è in approvazione anche dall’EMA (European Medicines Agency) il farmaco teplizumab, un anticorpo monoclonale anti-CD3, un recettore dei linfociti, che, se bloccato, può ritardare l’insorgenza di diabete tipo 1. Alcuni trial clinici effettuati negli anni passati hanno dimostrato come la somministrazione dell’anti-CD3 in pazienti ad alto rischio di sviluppare diabete tipo 1, ritardi, in media, due anni l’insorgenza del diabete tipo 1. Attualmente questi studi sono in una fase di follow up che ci permetterà di capire cosa succederà in futuro. Chiaramente bisogna identificare i cosiddetti responders e non responders, cioè i pazienti che rispondono e quelli che non rispondono a questa terapia. I microRNA potrebbero essere importanti per andare a identificare queste due categorie di pazienti. In uno studio da noi effettuato nei topi abbiamo identificato un gruppo di animali che sono maggiormente responsivi al trattamento combinato con anti-CD3 e un batterio (Lactococcus lactis) ingegnerizzato per produrre un determinato set di proteine. Attraverso la misurazione di tre microRNA circolanti nei topi, è stato possibile discriminare chi risponderà alla terapia e chi non lo farà. Sono in corso studi anche nell’uomo per poter identificare chi tra i pazienti potrebbe rispondere con più probabilità alla somministrazione del farmaco.
Per le persone con una storia familiare di diabete, esistono già dei test sul sangue in cui valutare la presenza dei microRNA in modo tale da poter attuare delle terapie preventive?
Al momento la valutazione dei microRNA circolanti per identificare queste categorie di soggetti è ancora in fase preclinica e di ricerca; a tal proposito, il nostro gruppo di ricerca è coinvolto in un progetto europeo (EDENT1FY) che prevede lo studio dei microRNA circolanti in soggetti non diabetici che vengono sottoposti a screening per gli autoanticorpi e ne risultano positivi, in modo da definire con maggior precisione il rischio di sviluppare il diabete tipo 1.
Con la pandemia da Coronavirus, si sono sollevate voci critiche nei confronti della scienza. Cosa si sente di dire a queste persone?
Semplicemente di non affidarsi ai social come fonte da cui trarre informazioni mediche ma di approfondire le proprie conoscenze e affidarsi a chi è esperto del settore.