David Quammen: “Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie”
Negli anni ottanta, il biologo Eugene F. Stoermer diffuse il termine “Antropocene” per identificare una nuova era geologica in cui gran parte delle modificazioni ambientali e climatiche sono dovute all’azione dell’uomo. Si stima che l’impatto dell’uomo sugli ecosistemi naturali abbia modificato oggi circa il 75% dell’ambiente terrestre e il 66% di quello marino (1). Come conseguenza, secondo i dati del Living Planet Report redatto dal WWF nel 2018 (https://www.wwf.it/news/pubblicazioni/?43320/Living-Planet-Report-2018), in poco più di 40 anni il pianeta ha perso in media il 60% delle popolazioni di vertebrati e metà delle foreste (2).
Cos’è la biodiversità e perché è così importante?
Con biodiversità intendiamo la varietà di organismi animali e vegetali presenti in un ecosistema. Ha un importante valore la diversità tra individui della stessa specie (intraspecifica), tra le specie esistenti (interspecifica) e tra gli habitat naturali, indispensabili per la stabilità delle diverse nicchie ecologiche.
Per capire l’importanza di questa variabilità dobbiamo considerare che le specie viventi interagiscono costantemente tra di loro in molti modi, ad esempio nella competizione per le risorse e nella predazione, creando importanti e complesse reti trofiche. Abbiamo individui produttori (le piante), consumatori primari (gli erbivori), consumatori secondari (i carnivori) e decompositori. Tali interazioni agiscono da fattore limitante per la crescita delle popolazioni, consentendo di mantenere un certo equilibrio nell’ecosistema.
L’eliminazione o la riduzione di un tassello in questa rete causa inevitabilmente uno squilibrio. Ciò si può tradurre nella crescita incontrollata di alcune specie, spesso invasive, o nella perdita di una funzione ecologica fondamentale, come nel caso dell’impollinazione da parte delle api. Ciascuna specie riveste e svolge un ruolo specifico nell’ecosistema in cui vive e proprio in virtù del suo ruolo aiuta l’ecosistema a mantenere i suoi equilibri vitali. La presenza di un alto tasso di biodiversità crea in genere maggiore stabilità degli elementi ambientali perché sono presenti più opportunità di variabilità genetica ed evoluzione. Preservare la diversità di cui siamo il prodotto significa garantirci il futuro.
I drammatici effetti della perdita di biodiversità si palesano giorno dopo giorno in molteplici contesti. Molti studi confermano la correlazione tra la diffusione di malattie infettive emergenti, come quella da virus ebola, la SARS, la MERS e la più recente, la COVID-19 e i rilevanti problemi ecologici, come la perdita degli habitat naturali e delle nicchie ecologiche, la frammentazione degli ecosistemi, la cattura e il commercio di specie selvatiche e più in generale la distruzione della biodiversità.
Spillover: a cosa è dovuto?
Molte delle malattie infettive emergenti sono zoonosi, malattie trasmissibili da un animale all’uomo direttamente o indirettamente, tramite alimenti o un ospite intermedio. Il momento in cui un microrganismo passa da una specie ospite ad un’altra, in ecologia ed epidemiologia, viene definito spillover (che si potrebbe tradurre come “tracimazione”) ed è un evento ben definito nel tempo.
Per capire l’evoluzione del virus e il suo passaggio attraverso i diversi ospiti bisogna sapere che ogni volta che il virus infetta un ospite mescola il proprio patrimonio genetico con quello di altri virus presenti nell’ospite; si riproduce a spese della cellula che infetta e poi abbandona l’ospite, ma con un corredo genetico diverso. In questo modo analizzando il DNA (acido desossiribonucleico) o RNA (acido ribonucleico) del virus si può “tracciare” il suo passaggio attraverso le diverse specie. Le origini di questi patogeni sono difficilmente individuabili, anche se si stima che il 60% abbia origine da animali selvatici.
All’interno di biomi ricchi di biodiversità, come le foreste tropicali o temperate, bacini pluviali e zone umide, i patogeni potrebbero trovare degli ospiti con cui coevolvere e sopravvivere per molto tempo, rimanendo in equilibrio nel loro ambiente senza danneggiarlo. Ad esempio, nelle foreste incontaminate dell’Africa occidentale vivono alcuni pipistrelli portatori del virus ebola. Il cambiamento del territorio come la costruzione di strade di accesso alla foresta, l’espansione dei territori di caccia, la raccolta di carne di animali selvatici (bushmeat) e lo sviluppo di villaggi in territori prima selvaggi, ha portato la popolazione umana a un contatto più stretto con l’insorgenza del virus. Similmente, l’ingresso in foreste un tempo intatte da parte di comunità umane, sempre in Africa, ha aumentato i contatti diretti o indiretti con i serbatoi delle malattie, portando ad un aumento di patologie come la febbre gialla (che viene trasmessa, attraverso le zanzare, da scimmie infette) e la leishmaniosi.
Attualmente, i cambiamenti di uso del suolo e la distruzione degli habitat naturali, come le foreste tropicali, sono considerati responsabili di almeno la metà delle zoonosi emergenti (3). Per esempio, la diffusione della malaria nell’Amazzonia peruviana è attribuita alla deforestazione (4). Qui, i siti deforestati, confrontati con le foreste integre, presentano una maggiore densità di Anopheles darlingi, la più efficiente tra le zanzare locali nel trasmettere la malaria (5). Un altro esempio è il virus Nipah, diffusosi a partire dalle foreste pluviali indonesiane. In seguito a vasti incendi che distrussero gran parte di queste foreste, le volpi volanti (una specie di pipistrelli), si spostarono in cerca di cibo, stabilendosi sugli alberi da frutto in Malesia. Poco tempo dopo contrassero il virus i maiali allevati nei paraggi e i loro allevatori, sviluppando una grave infiammazione del cervello, gran parte delle volte letale.
Se da una parte la distruzione degli habitat naturali crea delle condizioni favorevoli alla diffusione delle malattie zoonotiche emergenti, dall’altra la creazione di habitat artificiali o più semplicemente di ambienti poveri di biodiversità e con un’alta densità umana possono ulteriormente facilitarla. In queste nuove condizioni determinate dall’uomo, vengono meno quegli equilibri degli ecosistemi, delle popolazioni e degli individui in grado di contrastare i microrganismi responsabili di alcune malattie.
Come la biodiversità può proteggerci?
La “diluizione” e l’“effetto coevoluzione” sono tra le dinamiche attraverso cui la biodiversità ostacola la diffusione delle malattie.
L’effetto “diluizione” è quello più studiato, descrive come in un ecosistema con una ricca comunità di potenziali ospiti (animali in cui un virus o un altro organismo si possono riprodurre), un agente patogeno ha una minore probabilità di trovare un ospite adatto alla sua moltiplicazione (highly-competent host) e da cui possa diffondersi utilizzando un altro animale come vettore. Infatti, in uno scenario ricco di animali geneticamente diversi è più facile che l’agente patogeno capiti su una specie non adatta, che funzionerà da “trappola ecologica” per il patogeno o per il suo vettore. Gli scienziati chiamano questi animali “dead-end hosts”, ovvero ospiti “a vicolo cieco”. Recenti studi suggeriscono come l’effetto di diluizione possa spiegare la riduzione della trasmissione della malaria in diverse regioni dell’Amazzonia brasiliana. In condizioni di bassa biodiversità tendono a prevalere poche specie abbondanti, che divengono quindi più esposte a contrarre e diffondere le infezioni (6).
L’“effetto coevoluzione” si basa sulla ricerca dell’origine dei tanti nuovi organismi infettivi. Si ipotizza che con la distruzione degli habitat i frammenti di foresta rimanenti agiscano come isole, provocando la coevoluzione di ospiti e patogeni, che così agiscono da motore coevolutivo all’interno ci ciascun frammento, accelerando la diversificazione dei patogeni e aumentandone il numero. Infine, la presenza di vettori, come le zanzare, può facilmente diffondere il patogeno (7).
Fonti:
(1) IPBES (2019). Global assessment report on biodiversity and ecosystem services.
(2) Crowther T. W. et al. (2015). Mapping tree density at a global scale. Nature, 525, 201-205
(3) Keesing F. et al. (2010). Impacts of biodiversity on the emergence and transmission of infectious diseases. Nature, 468, 647-652
(4) Yasuoka J. et al. (2007). Impact of deforestation and agricultural development on anopheline ecology and malaria epidemiology. Am J Trop Med Hyg, 76, 450-460
(5) Vittor A. Y. et al. (2006). The effect of deforestation on the human-biting rate of Anopheles darlingi, the primary vector of falciparum malaria in the peruvian Amazon. Am J Trop Med Hyg, 74, 3-11
(6) Lugassy L. et al. (2019). What is the evidence that ecosystem components or functions have an impact on infectious diseases? A systematic review protocol. Environ Evid, 8, 4
(7) Zohdy S. et al. (2019). The coevolution effect as a driver of spillover. Trends Parasitol, 35, 399-408